“Esistono soltanto due cose: scienza ed opinione; la prima genera conoscenza, la seconda ignoranza”
Ippocrate di Kos, 460-377 a.C. – Corpus Hippocraticum
Si suole attribuire a Ippocrate di Kos, colui che in Occidente si ritiene il padre della medicina scientifica, l’affermazione “esistono soltanto due cose: scienza ed opinione; la prima genera conoscenza, la seconda ignoranza”.
Questa tesi caratterizzerà uno dei temi più intriganti e fertili della filosofia antica, tipicamente conosciuto come il dibattito fra scienza (o epistème) e opinione (o dòxa). Tale dibattito ha attraversato i secoli fino ai giorni nostri, coinvolgendo anche il sapere scientifico in una crescente complessità di analisi, considerazioni, esiti.
SCIENZA E OPINIONE: alle origini del processo trasformativo dall’immaginare al pensare

L’affermazione sopra riportata è estremamente interessante, poiché evidenza quel processo di trasformazione antropologica che caratterizza la Grecia a partire dal VI e V secolo a.C. in poi.
Tale cambiamento implica il passaggio dallo sperimentare il mondo in immagini al viverle come pensiero.
Ciò che l’individuo dell’antichità pensava, veniva anche sentito. L’anima del greco antico era immersa, secondo il suo sentire, nei fenomeni della natura. Ciò che l’anima sperimentava insieme a questi fenomeni le si presentava come l’apparizione di immagini pregne di vitalità, allo stesso modo di quello che sperimentava nell’attività del proprio corpo.
Il passaggio dall’esperienza immaginativa all’esperienza interiore ed autonoma del pensiero portò al declino della precedente esperienza tramite immagini simboliche. Questo passaggio si compie in epoche diverse, gradualmente e con caratteristiche diverse. In Grecia questo processo ha inizio nel VI sec. a.C. con Ferecide di Siro e Pitagora, arricchendosi e diffondendosi con i sofisti, per poi definirsi compiutamente con Platone e Aristotele.
Col nascere del pensare nasce la filosofia, attraverso cui si assiste al processo che evidenzia lo svincolarsi dagli antichi modi di rappresentazione, in cui si giunge ad un concetto interiore ed autonomo dell’anima, alla distinzione dell’anima dalla natura esterna.
Con Talete di Mileto, Anassimandro, Anassimene ed Eraclito, i processi della natura vengono vissuti ancora in modo analogo ai processi interni dell’anima. Lo sforzo di produrre una precisa concezione del mondo, una cosmologia, è tipico di questo periodo; in cui questi pensatori si occupavano delle rispettive discipline (es. matematica, astronomia) in modo pratico, senza fondarsi su di una conoscenza di pensiero scientifica come noi oggi la intendiamo e l’abbiamo ricevuta. Tuttavia, costoro non terminarono la completa e severa separazione dell’anima umana dall’azione della natura. Tale iato si compie da Parmenide in poi, culminando con Platone ed Aristotele.
Con Parmenide, infatti, i filosofi e studiosi della natura riconoscono come vera solo una concezione del mondo che soddisfi pienamente la vita del pensiero, in modo tale che dal pensiero possa essere completamente assimilata.
L’ARTE DEL PENSARE: il pensiero diventa sovrano

La concezione eleatica del mondo vide con Parmenide, Zenone ed altri esponenti lo sviluppo dell’esperienza del pensiero fino a farne un’arte specifica – la dialettica-, della quale siamo tutt’oggi gli eredi. A segnalare la progressione dell’arte del pensare nella dialettica, è il dialogo platonico Il Parmenide, in cui Socrate viene sollecitato da Parmenide ad imparare da Zenone l’arte del pensiero, altrimenti sarebbe rimasto lontano dalla verità. Ecco che il pensiero inizia a fiorire, ad articolarsi, a strutturarsi più compiutamente e si sente in pari la necessità di un severo e rigoroso esercizio sulla sua attività.
Con Democrito si assiste alla oggettivazione del mondo: nella natura, negli atomi, non vive più nulla dell’anima. Il pensare rende l’anima consapevole della propria essenza, ma al tempo stesso conferisce un sentimento d’incertezza riguardo a sé stessa, poiché si sente distaccata dalla potenza universale, spirituale, indipendente da essa.
Con l’affermarsi nella vita politica e filosofica dei Sofisti, nell’alveo dell’Atene democratica di Pericle, il pensiero si fa sovrano e sempre più sciolto dall’anima.
IL SAPERE DEI SOFISTI: la contesa del sapere tra verità e apparenza

Sophistés, come essi stessi amavano presentarsi, significava propriamente “uomo sapiente”, “ingegnoso”.
Protagora, il più eminente fra i sofisti, esporrà nell’opera La verità, la celebre tesi “di tutte le cose misura (métron) è l’uomo, di quelle che sono per quel che sono, di quelle che non sono per quel che non sono”. Protagora e i sofisti vogliono essere in grado di costruire sul pensiero, di appoggiarsi unicamente sulla sua potenza infallibile. Questa esperienza di pensiero non vede un legame con una potenza universale oggettiva. Con ciò, i sofisti giungeranno però in acque pericolose; lo spirito greco si troverà di fronte ad un abisso, in cui vuole mantenere l’equilibrio mediante la propria forza.
La tesi protagorea si mette in un certo modo in disaccordo con lo spirito che vive nelle profondità dell’ellenismo, che si esprimeva nell’iscrizione del tempio delfico: “Conosci te stesso”. L’antica saggezza dell’oracolo addita all’essere umano la propria anima: in essa può essere intesa la lingua in cui il mondo esprime la propria essenza.
Con lo sviluppo del pensiero giunto fino a questo punto di sforzo e audacia, si giunge ad una svolta nella vita greca, si attua il passaggio decisivo verso l’illuminismo greco.
La tesi protagorea si trova in netta contrapposizione con il pensiero di Parmenide in quanto afferma che l’opposizione tra “ciò che è” e “ciò che non è” non vada intesa in maniera assoluta, ma in relazione ai particolari campi di indagine, quindi in relazione all’uomo che compie l’indagine. Dalla tesi di Protagora deriva che, coincidendo “ciò che è” con “ciò che appare”, non esiste una verità assoluta, ma solo opinioni relative all’individuo che conosce e giudica e alla condizione in cui conosce e giudica. Da queste premesse deriva che la realtà non è unica, ma molteplice, relativa all’esperienza, varia e conflittuale; non è oggettiva, bensì soggettiva. La verità non esprime la natura delle cose, ma scaturisce dall’interazione dell’essere umano con esse, per cui la validità di ogni percezione è fondata su sé stessa. Da tali tesi deriva quello che è stato definito relativismo epistemico e morale.
Questa postura segna lo stretto legame con l’interesse retorico. I sofisti furono veri e raffinati maestri di eloquenza, un’abilità indispensabile per chi aspirava al successo nella vita politica della pòlis e a far parte del ceto dirigente. L’esigenza dell’efficacia discorsiva spingeva ad affinare le tecniche persuasive, formali, per controllare la correttezza dei discordi (lógoi) e renderli inconfutabili nei contraddittori. La persuasione degli ascoltatori veniva condizionata dall’efficacia suggestiva della parola.
I sofisti si dedicarono ad elaborati studi sul linguaggio e l’arte della parola. Alcuni curarono soprattutto la forma, l’arte di fare discorsi letterariamente elaborati, suggestivi -quindi convincenti- in cui la parola perde ogni potere rivelativo nei confronti della realtà e diventa qualcosa di completamente autonomo da essa. Altri approfondirono l’ordine interno delle argomentazioni, cioè l’arte di renderli rigorosi, coerenti e verosimili. In tal modo si distinsero la retorica, di cui Gorgia è iniziatore, e la dialettica, di cui il maggior esponente fu Protagora. Estremizzando il metodo antilogico di Protagora e la teoria gorgiana dell’autonomia del linguaggio nei confronti della realtà, i sofisti giungeranno infine alla creazione della eristica (da éiro = dico), ossia dell’arte di vincere nelle discussioni, confutando le affermazioni dell’avversario, senza riguardo alla loro intrinseca verità o falsità concettuale. Con l’eristica si ha la totale risoluzione della filosofia nella retorica.
All’interno dell’orizzonte incerto dell’opinabile o del probabile, segnato dalla limitatezza delle conoscenze e da una prassi regolata per lo più dalle opinioni, la persuasione era possibile modificando le stesse opinioni, incrementandone o riducendone la plausibilità. L’effetto che il discorso poteva produrre era indicato come psychagoghia, cioè come capacità di attirare, catturare le anime degli ascoltatori, fissarne l’attenzione e vincerne il consenso. Lo scopo dell’oratore era dunque, ieri come oggi, quello di servirsi suggestivamente delle parole, per raggiungere l’obiettivo prefissato e influire sulle credenze e aspettative del pubblico.
SOCRATE E IPPOCRATE: la fiducia nella conoscenza orientata alla verità

Ippocrate e Socrate sono contemporanei, respirano la stessa atmosfera culturale e politica del V sec. a.C. In quel periodo fioriscono molte arti e conoscenze, fra le quali la medicina si sviluppa con straordinaria vitalità. La loro azione è segnata dalla fiducia di ri-orientare la ricerca della verità entro il relativismo soggettivistico implicato dalla tesi protagorea; e prendere le distanze dagli esiti più contraddittori della sofistica. Ciascuno nei propri ambiti aspira a ricercare la conoscenza vera (epistème), poiché essa implica ricadute pratiche: la cura dell’anima, del corpo, la vita democratica della pòlis orientata alla giustizia, all’etica, al bene.
In entrambi è presente la tensione tra la “verità” (alétheia), cioè lo stato effettivo delle cose, e il resoconto ingannevole dei lógoi. In entrambi è presente la coscienza della problematica disponibilità della “verità” e del comune dominio dell’”opinione”(dòxa).
Benché la ricostruzione precisa della figura e del pensiero di Ippocrate entro una variegata presenza di fonti e autori “ippocratici” presenti difficoltà e ci consegni incertezze, è ben documentata l’avversione che lui aveva per la furbizia, la refrattarietà agli insegnamenti dei sofisti, alle superstizioni e ai rituali che inquinavano il rigore scientifico e l’integrità morale.
La tesi ippocratica dell’incipit pare altresì preannunciare e anticipare la ricchezza gnoseologica del Teeteto platonico, sorta dalla ricerca di una definizione rigorosa ed esaustiva alle domande poste da Socrate al giovane matematico Teeteto: “che cosa è scienza?”, “scienza e sapienza sono la stessa cosa?”.
IPPOCRATE e la fondazione epistemologica della scienza medica

In un’epoca in cui i medici erano ancora confusi con i sofisti, con i poeti, con gli indovini e con i filosofi, le figure mediche di formazione ippocratica sentono la necessità di definire una precisa epistemologia per distinguere la loro arte dalle pratiche dei sacerdoti e dei filosofi presocratici.
Ippocrate di Kos è universalmente conosciuto come il fondatore occidentale della scienza medica come scienza autonoma. Egli conferì alla medicina un preciso stato di téchnē, cioè di pratica fondata su una specifica concezione della malattia, della salute e dell’uomo in genere, sia nella sua struttura fisica e psichica, sia nei suoi rapporti con l’insieme della natura e della società.
Per formulare questo sapere, Ippocrate portò un serio attacco contro la medicina fondata su credenze superstiziose e su pratiche magico-religiose, reputando prova d’ignoranza e frutto di mistificazione da parte di falsi medici in coloro che attribuivano la malattia a cause prive di un fondamento scientifico. Egli operò anche un’opposizione a una medicina che si voleva fondata sul dominio dei principi filosofici o sulla cosmologia. Ne L’antica Medicina, Ippocrate sostiene infatti l’idea secondo la quale una scienza in qualche modo certa della Natura non può derivare da nient’altro se non dalla medicina; sarà quindi possibile acquisirla soltanto quando la medicina stessa sarà stata tutta quanta esplorata con metodo corretto.
Fondendo osservazione empirica e classificazione metodica dei risultati, Ippocrate e i suoi allievi concepiscono la medicina come una scienza dell’uomo in grado di sfidare la filosofia nella sua stessa pretesa di conoscere l’essere umano. La medicina ippocratica tempera la speculazione teorica con l’attenzione ai dati empirici dell’esperienza e della pratica.
Dall’osservazione dell’essere umano reale nella sua vita concreta, singolare, sarà desunta la conoscenza medica. Ippocrate conferì altresì alla nascente professione medica il primo statuto deontologico, scrivendo il famoso “Giuramento di Ippocrate”, che ha travalicato i secoli giungendo sino ad oggi, in cui “operare in scienza e coscienza” divenne istanza morale assoluta.
A promuovere questa definizione del sapere medico contribuì l’adozione più frequente della scrittura in campo medico, fatto che trasformò il contenuto e la prassi della medicina antica. Il sapere medico era prevalentemente trasmesso per via orale, da maestro a discepolo; con la pratica della scrittura poteva essere trasmesso oltre la limitazione della necessaria presenza fisica del medico. Attraverso la scrittura dei fatti osservati e delle riflessioni si costituì dunque un sapere che poté essere diffuso, ampliato, classificato, un sapere suscettibile di integrazione ed evoluzione.
La conoscenza che si è costituita contestualmente ad Ippocrate, ai suoi allievi e successori è divenuta estremamente ricca, variegata, fin contraddittoria. La numerosità e varietà degli scritti riuniti nel Corpus Hippocraticum è divenuta oggetto di ricerche volte a discernere le origini, le attribuzioni dei testi, le modalità di costituzione del Corpus; interrogazioni che hanno sollevato la cosiddetta “questione Ippocratica”.
Senza addentrarci nella complessa questione Ippocratica, qui abbiamo voluto delineare alcune circostanze culturali entro le quali si sono sviluppate personalità e svolte sapienziali, che ancor oggi ci trasmettono i loro impulsi, intuizioni ed istanze.
La tesi “esistono soltanto due cose: scienza ed opinione; la prima genera conoscenza, la seconda ignoranza” costituisce ed anticipa l’impresa epistemologica che caratterizzerà nei secoli il dibattito culturale, scientifico e filosofico sulla demarcazione tra sapere vero e sapere fallace, tra scienza e pseudoscienza, tra scienza e metafisica. Tale dibattito ha attraversato oltre due millenni di storia, arricchendosi di innumerevoli domande, contributi, sfide e scoperte. Non ha smesso di inquietare e incitare gli animi degli studiosi, degli scienziati e di tutti coloro la cui biografia riconosce di essere intrecciata alle scoperte scientifiche, ai suoi costrutti e risultati.
In ogni tempo il sapere scientifico e medico ha coinvolto e condizionato il destino, la storia, la politica, la vita e la cura di masse di esseri umani che hanno creduto e credono che vi siano motivi razionali per credere che i risultati della scienza siano affidabili. La storia della scienza tuttavia mostra una continua revisione del sapere scientifico e medico, fatto che rende problematica la fiducia assoluta nei costrutti della scienza.
Cristina Veroni
Counselor filosofica