L’intuizione di Einstein
Nel 1905, Albert Einstein, studiando l’effetto fotoelettrico, postulò l’esistenza dei fotoni, particelle elementari senza massa che rappresentano l’unità fondamentale di energia associata alla radiazione elettromagnetica, inclusa la luce visibile. Osservato da Heinrich Hertz, studiato da Augusto Righi e Philipp Lenard, l’effetto fotoelettrico non aveva trovato ad allora una spiegazione.
L’effetto fotoelettrico
Alla fine del 1800, Heinrich Hertz condusse una serie di esperimenti avvalendosi di un rocchetto di Ruhmkorff (dispositivo per generare impulsi ad alta tensione) per lo studio degli archi elettrici in aria. Durante i suoi esperimenti notò che se gli elettrodi venivano tenuti in una camera buia per osservare più accuratamente la scarica, si doveva diminuire la distanza tra i due per generare l’arco.
La tensione di accensione necessaria a generare l’arco è direttamente proporzionale alla distanza tra gli elettrodi, in accordo con la legge di Paschen. In altre parole: a parità di altri fattori, un aumento della distanza tra gli elettrodi richiederà un’energia maggiore.
Essendo l’energia generata dal rocchetto sempre uguale, la luce abbassava la soglia necessaria per l’innesco della scarica. La luce quindi deve in un certo qual modo cedere energia agli elettrodi.
Augusto Righi osservò che una lastra di materiale conduttore, se irraggiata con raggi UV, si caricava positivamente. Fu lui a coniare il termine ‘effetto fotoelettrico’.
Un’altra evidenza dell’interazione tra la luce e materia si ha nell’osservazione di un elettroscopio a foglie d’oro caricato e illuminato poi da luce ultravioletta. Appena la luce ultravioletta va ad irraggiare il piatto dell’elettroscopio, la carica si annulla molto velocemente; la stessa cosa non avviene se illuminato con luce infrarossa. La luce in qualche modo doveva quindi permettere lo spostamento e l’emissione di elettroni da un atomo.
Philipp Lenard dimostrò, con i suoi esperimenti sui tubi catodici, che non è l’intensità della luce, bensì la sua lunghezza d’onda a cedere energia. Osservò anche una differenza di risposta a seconda del metallo, l’effetto fotoelettrico si manifesta solo al di sopra di una data frequenza specifica per ogni materiale, detta frequenza di soglia. Gli studi di Lenard gli valsero il premio Nobel nel 1905.
La soglia fotoelettrica fu per lungo tempo un enigma, non essendo spiegabile con le leggi della fisica classica. Per la soluzione si dovrà aspettare Albert Einstein…
Il fotone
Nel 1905, poco dopo che Planck postulò l’esistenza dei quanti di energia, Einstein ebbe l’intuizione di applicare il modello quantistico per spiegare l’effetto fotoelettrico.
Descrisse così la luce sia come un’onda che come una particella, chiamata fotone. Dal punto di vista ondulatorio, vale la relazione per cui la luce ha una certa lunghezza d’onda (λ) e una frequenza (ν), che sono legate dalla relazione: c = λν, dove c rappresenta la velocità della luce nel vuoto (circa 3 x 108 m/s); mentre dal punto di vista particellare, l’energia (E) di un fotone è data dalla formula E=hν, dove h rappresenta la costante di Planck (circa 6,626 x 10-34 J·s). È quindi chiaro che frequenza e l’energia hanno una relazione di proporzionalità diretta.
Gli elettroni all’interno di un materiale hanno una certa energia di legame, che rappresenta l’energia necessaria per tenerli legati al nucleo atomico. Se un fotone con energia sufficiente viene assorbito da un elettrone, l’elettrone può guadagnare abbastanza energia da superare l’energia di legame e può essere liberato dal materiale. Lo scambio di energia tra fotone ed elettrone avviene dunque per collisione tra i due. L’energia cinetica (K) dell’elettrone liberato può essere calcolata sottraendo l’energia di legame (Eb) dall’energia del fotone incidente (E). Pertanto, abbiamo la seguente relazione:
K = E – Eb
La quantità di energia di legame varia da materiale a materiale e dipende dalla struttura atomica del materiale stesso. Inoltre, la massima energia cinetica dell’elettrone liberato è raggiunta quando il fotone incidente ha un’energia pari all’energia di legame dell’elettrone. Oltre a ciò, è importante notare che la velocità di liberazione degli elettroni dipende anche dall’intensità della luce incidente.
Maggiore è l’intensità della luce, maggiore sarà il numero di elettroni emessi per unità di tempo, fermo restando che la radiazione luminosa deve essere al di sopra della frequenza di soglia del metallo in esame, altrimenti la sola intensità non creerà nessun effetto.
Einstein ricevette il Nobel per questi studi nel 1921, risolse elegantemente i problemi sull’effetto fotoelettrico usando la nuova teoria di Planck sulla quantizzazione dell’energia e postulò il dualismo onda-corpuscolo. Oltre a ciò, dimostrò che gli studi di Planck andavano oltre alla spiegazione dell’energia emessa dal corpo nero, rendendo la fisica dei quanti applicabile a più campi. Diede ulteriore impulso agli studi sui nuovi paradigmi della scienza spingendo la quantistica a dare sempre nuove interpretazioni della natura, come ad esempio la fotosintesi clorofilliana o la capacità migratoria degli uccelli.
Cristian Bortoli
Medico