Attualità e fondatezza della visione darwiniana dell’evoluzione
Darwin è considerato da tutti il padre della teoria dell’evoluzione. Che abbia dato un grosso contributo, è pacifico come è pacifico che le sue teorie godano tuttora di grande considerazione. Negli ultimi anni però, si stanno moltiplicando le voci critiche o, quantomeno, si sollevano perplessità su alcuni aspetti del suo pensiero; tra l’altro non da parte delle alte gerarchie ecclesiastiche, cosa che sarebbe perfino ovvia e scontata, ma anzi da parte di autorevolissimi scienziati. Poiché il pensiero di Darwin ha profondamente influenzato non solo le scienze naturali ma addirittura le scienze economiche e sociali, una riflessione sull’argomento è quantomeno doverosa.
È stato davvero Darwin il padre dell’evoluzionismo?
Non c’è dubbio che la pubblicazione de “L’Origine Delle Specie” abbia avuto un impatto clamoroso, addirittura deflagrante, sul dibattito già in vigore tra evoluzionisti e creazionisti. Infatti, Jean Baptiste de Lamarck aveva già pubblicato scritti basati sulle sue idee evoluzioniste con diversi decenni di anticipo rispetto a Darwin; eppure, almeno nell’immaginario collettivo, la paternità delle teorie evoluzioniste non è sua, bensì del suo più famoso collega, nonostante il dibattito fosse già in corso e pure molto acceso già quando il libro di Darwin fu pubblicato. Questo a dimostrazione che se la paternità delle teorie evoluzioniste in generale non può essere attribuita proprio a lui, si può invece affermare che è stato autore solo e soltanto di una teoria dell’evoluzione. In seguito si proverà ad abbozzare una spiegazione del perché una teoria dell’evoluzione sia poi diventata la teoria dell’evoluzione, per ora è sufficiente rimarcare che il testo di Darwin ha di fatto messo una pietra tombale sulle teorie creazioniste che furono del tutto abbandonate, almeno a livello di dibattito scientifico.
Tuttavia, per l’affermazione definitiva delle tesi del naturalista inglese si è dovuto attendere il Novecento e la nascita della teoria detta ‘unificata’ quando, grazie agli studi sulla genetica conseguenti alla scoperta del DNA e di tutto quello che ne è seguito, si è operata una sintesi tra le teorie darwiniane e quelle mendeliane riguardanti genetica e trasmissibilità dei caratteri. Infatti, il tratto distintivo della teoria lamarckiana stava proprio nella supposta trasmissibilità per via ereditaria delle modificazioni adattative, cosa che la genetica mendeliana e l’ipotesi di Darwin consideravano non vera: per entrambi gli studiosi, solo le modificazioni che avvenivano a livello delle gonadi erano trasmissibili ereditariamente, cosa che non si verificava per le modificazioni successive, avvenute in organi adulti e già differenziati. In tal senso, si avvalorava quindi la selezione naturale, ipotesi basilare di Darwin, come unico meccanismo possibile nel processo evolutivo.
A ben vedere, il trionfo di Darwin su Lamarck non ha dovuto aspettare il Novecento, è avvenuto molto prima; prova ne è la fortuna editoriale che “L’Origine Delle Specie” ha avuto. Vale la pena, ricordare brevemente i fondamenti della teoria della selezione naturale: l’ipotesi fondamentale è quella della pressione selettiva dovuta alla competizione tra specie e, all’interno della stessa specie, tra individui che si trovano a dover competere in una sorta di ‘tutti contro tutti’ per poter sopravvivere in un ambiente che non è assolutamente in grado di contenerli tutti. Così, le modificazioni adattative vantaggiose, pur comparendo casualmente, nel tempo e molto lentamente, favoriranno la scomparsa degli individui o delle specie meno adatte a favore di quelle meglio adattatesi. A corollario di questa ipotesi fondamentale, Darwin propose due ulteriori elementi, ossia l’andamento lento e progressivo della selezione (“natura non facit saltum”) e il principio per cui si concepisce come ‘vincenti’ solo ed esclusivamente le modificazioni che risultano vantaggiose per il singolo individuo, dando così luogo nel tempo ad una specie, od almeno una sottospecie, che prevarrà sulle altre. In questo modo tutto viene affidato al caso, eliminando di colpo ogni possibile intervento di una qualche forma di intelligenza, sia essa interna, come pensava Lamarck, sia esterna, come pensavano i creazionisti.
Questo secondo aspetto non poteva non piacere, anzi entusiasmare, gli scienziati in un secolo intriso e dominato dal positivismo al punto di farne praticamente un’ideologia.
L’ipotesi di Darwin è davvero a prova di bomba?
Le teorie di Darwin in realtà non sono così inoppugnabili come sembrarono agli occhi degli scienziati positivisti dell’Ottocento. Ci sono molte incongruenze che richiedono una riflessione ulteriore: cominciamo dal primo corollario citato più sopra, ossia la veridicità della frase natura non facit saltum. Si possono citare molti esempi a dimostrazione del fatto che natura facit saltum senza il ‘non’, ma ci limiteremo ad alcuni. Il primo, il più vistoso ed eclatante, riguarda le estinzioni di massa. L’ultima, l’estinzione dei grandi rettili, attribuita ad un meteorite precipitato sulla Terra, a mio modestissimo giudizio ipotesi piuttosto fragile, viene considerata generalmente vera. Infatti, non si capisce perché un meteorite che abbia fatto scomparire tutti i rettili che allora dominavano il pianeta, inclusi quelli di dimensioni relativamente piccole tipo il Velociraptor (grosso più o meno come un tacchino), abbia al contempo consentito la sopravvivenza di altri rettili, purché in forma “rimpicciolita”. Si prendano ad esempio le varie specie di coccodrilli. Aldilà delle cause che hanno portato all’estinzione di massa di gran parte dei rettili che allora dominavano il pianeta, resta il fatto che da quel momento natura facit saltum, e pure gigantesco, dato che si è passati da un pianeta dominato dai rettili ad uno dominato dai mammiferi praticamente in un batter di ciglia. Se poi andiamo ancora più indietro nel tempo, allora le recenti teorie e scoperte sull’endosimbiosi aprono un mondo di riflessioni e di meraviglie che non possono passare inosservate. Se pensiamo infatti al gesto straordinario di sacrificio di specie in quanto tali per proseguire invece in un’esistenza sotto una nuova veste, strategia adottata da ancestrali ed antichissimi protobatteri, che hanno sacrificato la propria identità per fondersi insieme in una nuova entità vivente, come sembra sia andata nel caso dell’endosimbiosi tra quello che poi divenne il mitocondrio ed un batterio più grande che lo poteva contenere e che ha consentito alle primissime forme di vita di produrre da sé l’energia necessaria per il funzionamento della nuova cellula nata dalla fusione di questi due organismi primordiali anziché cercarla all’esterno, c’è di che restare a bocca aperta per parecchio tempo. Se poi pensiamo anche solo per un istante a cosa ha significato nel processo evolutivo della vita sul pianeta il saltum incredibile dato dalla fotosintesi e quindi della capacità di passare dall’eterotrofia all’autotrofia, allora c’è da farsi cascare la mascella per terra e fare pure enorme fatica a raccogliergliela, se pure ci si dovesse riuscire.
Ritengo questi esempi di per sé sufficienti per confutare una volta per tutte la tesi che in natura non avvengano salti. Non solo avvengono ma ce n’è una tale molteplicità da dover ritenere il salto evolutivo la norma piuttosto che l’eccezione, con buona pace del meccanismo della selezione lenta ma inesorabile al quale era tanto affezionato Sir Charles Darwin. Nel caso poi del secondo corollario, le cose si mettono ancora peggio per il nostro osannato padre dell’evoluzionismo poiché basta una disamina financo frettolosa e superficiale della tesi da lui propugnata per mostrarne le falle in tutta la loro ampiezza. Infatti, se guardiamo con un pizzico di neutralità di giudizio ed onestà intellettuale l’evidenza dei fatti, allora non si può non vedere come la tesi della selezione basata sullo sviluppo di caratteri adattativi e vantaggiosi non regga. È un dato assodato che nel regno animale l’ultimo essere a comparire in ordine cronologico è stato l’uomo, ma da quando sono comparsi i primi preominidi fino ai nostri giorni, e cioè dagli australopitechi agli Homo sapiens, le modificazioni avvenute sono davvero notevoli ed importanti. Tuttavia, affermare che abbiano un significato adattativo e di vantaggio evolutivo rispetto agli individui preesistenti a ben vedere suona come una forzatura clamorosa: che vantaggio si avrebbe mai nel perdere il pelo per poi dover uccidere altri animali e rivestirsi del loro per non morire di freddo? E che razza di vantaggio si avrebbe nel progressivo assottigliamento dell’epidermide del piede fino a costringerci a dover inventare le scarpe per poter camminare? Ancora, quale sarebbe il vantaggio adattativo nell’assottigliarsi dei denti e della mascella fino al punto da costringerci a cuocere i cibi altrimenti non saremmo nemmeno in grado di masticarli? Alcuni possono obiettare il carattere esclusivo del caso della specie umana. Proviamo quindi a fare lo stesso discorso con specie vegetali. Le ultime apparse sul pianeta, come famiglia botanica, sono le Orchidaceae, cioè le orchidee. Ora, è molto comune tra questa famiglia l’impollinazione ristretta, cioè specificatamente entomofila e limitata ad un unico impollinatore. Ad esempio, la vaniglia viene coltivata nelle Reunion, Madagascar, Mauritius e Papua Nuova Guinea oltreché in Messico, paese dal quale è originaria; ma mentre in quest’ultimo paese l’insetto impollinatore è naturalmente presente, non lo è in tutti gli altri paesi citati. Quindi, per poter riprodurre la pianta è necessaria l’impollinazione manuale fatta da operatori che raccolgono il polline da un fiore maschile e lo trasferiscono al fiore femminile, consentendo la riproduzione. Desta poi stupore un esempio portato proprio da Darwin a riprova della sua teoria ma che a mio giudizio è la negazione radicale dell’ipotesi stessa, e cioè la faccenda dell’Angraecum sesquipedale. In questa orchidea, il nettario è situato a 25 cm di profondità e lo stesso Darwin suppose che per fecondare tale fiore ci volesse una farfalla con una proboscide lunga almeno 25 cm; farfalla che non riuscì mai a trovare, ma che fu trovata successivamente. Si tratta della Xanthopan Morgani Praedicta (‘Praedicta’ proprio perché prevista da Darwin), con una proboscide lunga 25 cm. Ora, la questione che si pone è semplice ed ha a che fare con la faccenda delle uova e delle galline: chi si è evoluto prima, il fiore o la farfalla? A rigor di logica non può essere stata la farfalla, giacché vivono troppo poco per poter aspettare l’evoluzione di un fiore dal quale nutrirsi; quindi diamo per scontato che si sia evoluto prima il fiore, visto che le piante sono in grado di vivere molto più a lungo. Tuttavia rimangono aperti alcuni interrogativi: ammesso e non concesso che un’orchidea abbia deciso ad un certo punto, anche se non si capisce in funzione di quale vantaggio adattativo, di sviluppare un nettario profondo almeno 25 cm; è altrettanto incomprensibile il perché una certa farfalla abbia deciso di allungarsi la proboscide al fine di nutrirsi solo ed esclusivamente del nettare di quell’orchidea, rinunciando al banchetto multifiorito offerto dai giardini sempre floridi del Madagascar. In sostanza, le ultime arrivate, e cioè le orchidee, avrebbero deliberatamente scelto in molti casi di utilizzare un impollinatore solo ed esclusivo piuttosto che la moltitudine che invece hanno scelto le angiosperme più primitive. Questo, alla luce dell’ipotesi di partenza, sarebbe pure un vantaggio adattativo: se scompare l’impollinatore, scompaio pure io; oppure, visto dal punto di vista dell’insetto, se scompare il fiore, scompaio pure io.
Come giustificare allora un simile comportamento alla luce dell’ipotesi di Darwin? Si vuole forse ammettere che la scelta orientata alla “bellezza”, che tale è peraltro solo ai nostri occhi, fatta dalle orchidee costituisca un vantaggio adattativo rispetto alla “bruttezza”? Credo che questa opzione avrebbe fatto inorridire lo stesso Darwin. Negli ultimi decenni poi, lo sviluppo dell’epigenetica, ha messo profondamente in crisi l’ultima forma di determinismo ancora egemone, cioè quello basato sul primato del gene su tutto il resto, mandando così in crisi anche la teoria unificata che cercava di mettere insieme l’ipotesi darwiniana con la genetica mendeliana. La scoperta del silenziamento genico per via epigenetica trasmissibile anche ereditariamente, che ha peraltro come effetto anche l’aumento di probabilità che prima o poi quella modificazione si trasferisca anche alle gonadi, fino all’ipotesi, senz’altro più ardita ma supportata anche da dati sperimentali, che epigeneticamente sia possibile addirittura una modificazione del genoma gonadiale fatta da alcuni ricercatori, rimette al centro una qualche forma di intelligenza come scelta dei caratteri trasmissibili; la quale, se non può essere concepita come base del meccanismo dell’evoluzione, viene intesa almeno come concausa. Dobbiamo quindi ammettere che esiste anche la scelta ‘intelligente’.
Prima di passare all’ultimo paragrafo e per concludere la disamina dell’ipotesi darwiniana, un’ultima considerazione sull’ipotesi di fondo di tutta la teoria, cioè la supposta competizione come regola fondamentale della natura. Se consideriamo la realtà così come la conosciamo, le cose appaiono profondamente diverse, a partire dall’endosimbiosi che ha trasformato in mitocondrio un protobatterio, proseguendo con l’aggregazione dapprima sinciziale, poi sempre più organizzata in tessuti differenziati originata dalla cooperazione tra organismi unicellulari, l’incredibile moltitudine di esempi di mutuo aiuto tra individui di specie diverse all’interno dello stesso regno ed anche appartenenti a regni diversi, come miceti, piante, batteri, insetti, allora appare chiaro come in realtà il logos della natura sia la cooperazione e non la competizione. Vero è che in natura la competizione esiste, ma emerge solo in regime di scarsità, di risorse idriche, alimentari o altro, persino di luce nel caso delle piante. Di conseguenza, nell’ipotesi darwiniana, quella che è l’eccezione viene presa a regola generale, operando anche forzature semantiche laddove per giustificare l’ipotesi si porta ad esempio il fatto che solo pochi semi dei tanti prodotti a maturazione daranno origine a nuovi individui. Il metodo scientifico prevede che di fronte all’osservazione di un evento o di un fenomeno, in questo caso l’evoluzione della vita sul pianeta, si faccia un’ipotesi e che poi si sottoponga la stessa a verifica alla luce dei dati e delle osservazioni note. Se coincidono, allora la teoria è senz’altro accolta almeno fino a confutazione, se si presentano alcune, ma poche, eccezioni allora la teoria viene accettata in mancanza di meglio, oppure in attesa di un suo perfezionamento; ma se le eccezioni sono troppe, l’ipotesi è falsificabile e va senz’altro rigettata. È esattamente questo il caso ma, curiosamente, il rigetto con Darwin non c’è stato.
Perché Darwin ha avuto così tanto successo
Se il successo della teoria darwiniana è da attribuirsi al contesto nel quale si è inserita, soprattutto in ambiente accademico, più che alla sua fondatezza, allora è proprio in quel contesto che va cercata la spiegazione del successo stesso. Innanzitutto, l’ambiente filosofico e scientifico, intriso di positivismo, tipico dell’Ottocento -in particolare in Gran Bretagna- fu particolarmente favorevole ad accogliere una teoria che mettesse la natura, e di conseguenza lo studio scientifico della stessa, al centro del fenomeno più vistoso e meraviglioso accorso sul pianeta Terra, cioè lo sviluppo della vita. Tuttavia, Darwin non fu l’unico esponente dell’evoluzionismo ottocentesco, né il primo a pubblicare sull’argomento. In particolare, il suo maggior ‘concorrente’, Jean Baptiste de Lamarck, fu presto dimenticato e quella di Darwin rimase l’unica stella a brillare nel firmamento degli evoluzionisti. È possibile che la tesi lamarckiana, secondo la quale l’evoluzione è collegata a una qualche forma di scelta attiva, essendo secondo la sua visione possibile trasferire volontariamente alla discendenza una modificazione vantaggiosa ed adattativa, lasciasse aperta la porta ad un possibile intervento di una forma di intelligenza esterna al mondo dei viventi… in altre parole, l’invisibile mano di Dio. Questo forse ha fatto arricciare il naso ai positivisti dell’epoca, considerato che ogni intromissione di entità sovrannaturali era vista con profondo sospetto se non con sdegno. D’altro canto, sarebbe fuorviante e scorretto accusare Lamarck di creazionismo, quindi resta insufficiente una spiegazione basata solo su di una preferenza ideologica, o se si preferisce, su di un pregiudizio, degli ambienti accademici per l’uno piuttosto che per l’altro. Il successo editoriale infatti de “L’Origine Delle Specie” ha talmente travalicato i confini degli addetti ai lavori diventando un best seller almeno a livello di pubblicazioni scientifiche che giocoforza bisogna trovare altre cause, o almeno concause, per giustificare tale entusiasmo. Andando sempre a ragionare sul contesto, in particolare in Gran Bretagna il capitalismo si era ormai definitivamente affermato come sistema socioeconomico egemone, relegando le economie tipiche di società precapitalistiche a ruoli del tutto marginali. Giova ricordare che oltretutto si trattava di un capitalismo nettamente liberista, basato tutto sulle teorie di Adam Smith (John Maynard Keynes verrà al mondo diversi decenni dopo), dove l’unica legge era quella della competizione e qualsivoglia intervento pubblico in economia era visto come da evitare. Inoltre, tanto per lavarsi la coscienza e scaricarsi di ogni responsabilità, i capitalisti dell’epoca avevano abbracciato con convinzione le teorie del reverendo Malthus, quello che sosteneva, per intenderci, che la povertà esistesse a causa dei poveri e che la crescita geometrica della popolazione aveva condotto inevitabilmente all’impoverimento, non essendoci risorse sufficienti per tutti. Figuriamoci cosa avrebbe potuto dire oggi, con una popolazione mondiale di circa otto miliardi di persone. Pur senza mai arrivare a sostenere la necessità dell’eliminazione fisica dei poveri (forse perché uomo di fede) diede tuttavia la stura ad un movimento chiamato appunto ‘malthusianesimo’, che invece arrivò a promuovere campagne di sterilizzazione di massa per eliminare il problema della povertà eliminando i poveri. Lo stesso Darwin ha ammesso, scrivendolo, di essersi ispirato proprio alle teorie del ‘reverendo Malthus’, così citato nel suo libro nonostante il suo dichiarato ateismo.
Le tessere del mosaico a questo punto vanno tutte al loro posto: da un lato il favore in ambiente accademico, dall’altro l’aver servito su un vassoio d’oro alla nuova classe dominante, quella dei capitalisti, una formidabile copertura ideologica rendendo possibile narrare il capitalismo come sistema “naturale” per definizione, essendo coerente appunto col meccanismo della selezione basata sulla competizione al punto che addirittura il fallimento di un’impresa capitalistica è stato salutato come evento positivo perché appunto coerente con l’ideologia della “selezione naturale” in ambito economico. Viene da chiedersi com’è possibile che un qualcosa di totalmente artificiale come un sistema socioeconomico possa sottostare invece a leggi naturali. Ciononostante, così è stato detto e così è stato percepito, al di là del fatto che le leggi naturali mostrino tutt’altra realtà. Il malthusianesimo poi fornì la copertura morale ad un sistema in sé escludente e che necessita dei poveri per poter vivere e prosperare, facendo sembrare quasi che i poveri fossero tali non perché nati nel posto sbagliato nel momento sbagliato ma perché per natura meno adatti dei ricchi, evidentemente più scaltri, che pertanto hanno, sempre per legge di natura, ben diritto ad occupare il posto che occupano nella scala sociale. Darwin fornì quindi un formidabile collante ideologico alla costruenda ideologia dominante ed è così che si spiega il successo che ebbe, tanto da trasformarlo dal padre di una teoria dell’evoluzione al padre della teoria dell’evoluzione.
Questa saldatura tra scienza ed economia non si esaurì nell’Ottocento, ma proseguì egemonizzando tutto il Novecento ed affacciandosi fino al terzo millennio quando, come abbiamo visto, l’ipotesi darwiniana entra in crisi -probabilmente irreversibile- proprio sotto i colpi di quella scienza che doveva esserne faro e guida. Pertanto, se proprio alle leggi di natura ci si deve ispirare, allora il futuro paradigma egemone non potrà che basarsi sulla cooperazione piuttosto che sulla competizione; e se le fortune delle teorie darwiniane e quelle dell’ideologia capitalista dominante sono davvero indissolubilmente legate, allora la crisi delle prime non è altro che lo specchio della crisi della seconda e questa, consentitemelo, sarebbe davvero una gran bella notizia.
Paolo Ospici
Erborista