La resilienza come risposta creativa al trauma
Il termine “resilienza” in origine proveniva dalla fisica e dall’ingegneria. Esso indica la proprietà dei materiali di resistere e mantenere la propria struttura, ritrovando la forma in seguito ad un urto o ad una pressione. Per un metallo, ad esempio, la resilienza rappresenta l’opposto della fragilità.
In psicologia, il termine è stato impiegato nell’ambito delle esperienze traumatiche, siano esse catastrofi naturali o ferite “interumane”. Essa indica non solo capacità di resistere alle frustrazioni della vita, ma anche la elaborazione di risposte flessibili e creative.
La resilienza consente la trasformazione dell’esperienza traumatica della persona o del popolo che attraversa la tragedia. Si tratta di un processo complesso, che vede l’interazione tra individuo e comunità di appartenenza. In tale processo, entrano in gioco plurimi fattori, dalle doti personali precedenti al trauma, al supporto sociale che segue l’esperienza di rottura.
La possibilità di poter stare alla giusta distanza dalla sofferenza e la ricerca di significato rappresentano le chiavi di volta di questo percorso doloroso e arricchente.
L’adattamento non è sempre segno di salute
I “disturbi psicotraumatici” si presentano in maniera simile in ogni cultura e società: angoscia, irritabilità, terrore, orrore, disturbi del sonno, depressione, comportamenti difensivi e disregolati.
Di fronte all’evento traumatico si muovono strategie tra due polarità: il crollo e la spinta di gravità.
La storia evolutiva e pre – traumatica dell’individuo, la struttura del trauma e l’organizzazione del supporto post – traumatico sono i tre parametri predittivi relativamente alla comparsa di un disturbo o l’instaurarsi di un percorso di resilienza (G. So – Kum Tang, 2006). Per la psiche umana, il caos corrisponde alla lacerazione traumatica, mentre la resilienza è una ricostruzione dotata di senso.
B.Cyrulnik (2009) chiama metaforicamente “spaventapasseri” l’essere umano traumatizzato.
Lo spaventapasseri è una persona che per soffocare la sua sofferenza ha “messo legno al posto del cuore e paglia nelle mani”. Lo spaventapasseri è una persona che se racconta le proprie ferite spaventa gli altri, che fuggono. La lacerazione psichica è difficile da ricucire perché coloro che circondano la persona le chiedono di rinunciare ad una parte di sé. Il mondo interiore è contratto e inaridito, le proprie ombre vengono silenziate, viene mostrato agli altri solo ciò che possono accettare.
L’utilizzo del diniego consente di allontanare la sofferenza, ma non è una strategia resiliente se la ricerca di significato è assente. Anche la legittimazione di una contro – violenza non va a risanare le ferite e l’adattamento che ne segue non è mai salutare.
Lasciarsi sopraffare dalla sofferenza o l’evitamento della stessa, la trascuratezza, l’alienazione o la costruzione di una carriera da vittima sono modalità anti resilienti perché bloccano la crescita della persona e non consentono una reale integrazione del trauma.
La resilienza come racconto di ritorno alla vita
Secondo Cyrulnik, ogni società offre o blocca la possibilità di esprimere e ricomporre la ferita tramite il sostegno affettivo o la costrizione al silenzio.
Quando l’identità di una persona è stata ridotta a brandelli, diventa primaria la necessità di preparare il contesto all’ascolto. Il racconto del singolo deve potersi armonizzare con il racconto della comunità.
A questo proposito l’autore mette in luce il ruolo dei “fabbricanti di racconti” (giornalisti, romanzieri, cineasti, saggisti). Essi possono comunicare il medesimo fatto reale secondo tre modalità:
1 – un discorso placebo con la tendenza ad assopire tutte le persone; ad esempio: “Non è nulla” “Passerà” “Andrà tutto bene”.
2 – un discorso nocebo con l’effetto di creare terrore e destabilizzare le persone; ad esempio “Moriremo tutti” “Non c’è più tempo” “È colpa di”.
3 – un discorso esplicativo ed interattivo, che si fa testimone della complessità delle vicende e delle relazioni umane.
Quest’ultima modalità permette sia al ferito di riflettere e costruire il proprio racconto, sia di rendere la comunità più recettiva. Lo spaventapasseri può finalmente fare il suo ritorno all’umanità perché il proprio ambiente lo lascia parlare.
L’elaborazione del trauma avviene tramite una narrazione vivificante.
Mentre approfondisce la conoscenza di sé stesso, la persona ferita si impegna nel tentativo di comprendere gli altri. Egli realizza una narrazione coscientemente orientata, dove descrive zone di luce e zone di ombra per poterle integrare. Egli ripristina il dialogo interiore e costruisce un ponte per riconnettersi alla società.
Il percorso di resilienza è quindi individuale e collettivo al tempo stesso. L’uomo ferito trasforma la propria sofferenza in opera d’arte e chiama il non ferito a uscire dall’egocentrismo.
La forza della resilienza non è il significato che attraverso essa si raggiunge, ma la ricerca di significato. Richiede un lavoro quotidiano, regolare e l’attraversamento di emozioni piacevoli e dolorose, aperture e ri-chiusure, fiducia e delusione.
È il racconto di un altro modo di diventare umani, un invito all’ascolto di una delle “belle storie che fanno dimenticare la piatta realtà e ci danno il coraggio di lavorare per trasformarla” (P. Janet, 1898).
Dott.ssa Martina Soddu
Psicologa Psicoterapeuta
BIBLIOGRAFIA
Cyrulnik B. (2009), Autobiografia di uno spaventapasseri. Strategie per superare le esperienze traumatiche, Cortina, Milano.
Janet P. (1898), Nèvroses et idèès fixes, Societè Pierre Janet, Paris.
So-Kum Tang G. (2006), Positive and negative post-disaster psychological adjustment among adult survivors of the Southern Asian earthquake-tsunami, Journal of Psychotraumatic Research, pp. 699-705.