Tra percezione e coscienza
La disciplina criminologica
La criminologia è una disciplina che come poche altre ha un carattere di trasversalità, richiedendo un apporto coeso di vari ambiti di conoscenza. Può essere definita come una scienza autonoma, multidisciplinare, multifattoriale, che ha per oggetto di studio il fatto-reato, l’autore del reato e la reazione sociale al reato [Monzani, 2016]. Per distinguerla subito da un’altra disciplina, prettamente investigativa, chiamata ‘criminalistica’, si può affermare che, come dice Silvio Ciappi, la criminalistica si occupa del ‘botto’, di quello che è accaduto dopo il reato; mentre la criminologia studia quello che è accaduto prima del botto, ossia ‘il germe’ del reato.
In particolare, bisogna capire che il termine ‘reato’ fa riferimento ad una realtà relazionale, dove singoli attori hanno, a volte loro malgrado, impersonato dei ruoli in una storia. E questo racconto può essere visto da molti punti di vista: attraverso gli occhi dell’autore del reato, attraverso le istituzioni, attraverso i media, attraverso chi si considera parte lesa dal reato stesso. Come si può immaginare, ciascuno di questi racconti avrà sfumature molto diverse, addirittura a volte contraddittorie tra di loro. Non a caso, è necessario un procedimento processuale per definire e decidere quale realtà sia può verosimile. Risulta quindi oltremodo necessario imporre nella visione criminologica una multidisciplinarietà al fine di non perdere pezzi di storia, punti di vista diversi, ma tutti equamente fondamentali per non perdere la complessità del fenomeno criminogeno.
La percezione del crimine
Al di là di questo, il problema ontologico della criminologia è il crimine stesso, vale a dire il reato: non sempre una stessa azione è considerabile un reato. Un’azione sociale, che necessita sempre di almeno due attori, può essere considerata negli anni come giusta o sbagliata, a seconda di molti fattori. Ecco quindi che storicamente abbiamo la distinzione tra ‘malum in se’ e ‘malum prohibitum’. Con la prima espressione ci si riferisce ad un’azione sbagliata di per sé, come ad esempio l’uccisione di una persona; con la seconda locuzione si indica un fatto sbagliato solo perché va a violare una legge scritta. Distinzione, questa, non sempre facile da usare: il boia che attiva i meccanismi di esecuzione nelle pene capitali in America sta commettendo un’azione proibita in sé, ma concessa a livello legislativo…
Un criminale è prima di tutto un deviante, colui che devia da una regola, sia essa scritta (non fare una cosa perché proibita) o semplicemente statistica (non fare una cosa perché i più non la fanno). Curioso come questo secondo aspetto sia forte a livello sociale tanto quanto il primo. Nelle prime versione del DSM (Manuale Diagnostico Statistico, il codice che racchiude l’intera nosografia psicopatologica) le persone con tatuaggi venivano classificate come devianti. Il fatto potrebbe far sorridere, visto che stiamo parlando degli anni ‘50, se non che studi come quello di A. D’Ambrosio, V. Martini e N. Casillo, entrambi afferenti alla Seconda Università di Napoli, Dipartimento di Psichiatria, recante il titolo “ASPETTI PSICOPATOLOGICI DEI PIERCING E DEI TATUAGGI” sono datati 2014…
La tendenza a patologizzare la devianza è sempre stata insita nella società, tanto che la sociologia l’ha inserita nel più ampio spettro delle teorie dell’etichettamento (Labeling theories). Proprio in questo frangente si possono inserire alcuni interessanti spunti: se la società decide di volta in volta cosa è la normalità e cosa non lo è, esiste davvero un fatto-reato che possa essere definito assolutamente a priori come ‘sbagliato di per sé’? Se la stessa società può usufruire dei media per definire cosa è ‘normale’ e cosa non lo è, non sarebbe lecito chiedersi come i media stessi possano usufruire di una influenza tanto forte nei confronti nella società? In altre parole: possono i media influire sulla percezione del crimine?
Essere coscienti del reato
La visione del crimine è sempre stata reo-centrica, concentrata unicamente sull’autore del reato. La controparte, ossia la vittima, è sempre stata relegata in secondo piano. Nel processo giuridico viene trattata alla stregua di un testimone, quindi non entra mai propriamente nel processo, con tutti i pro e i contro che possono derivare da questo. Ma molto spesso, più frequentemente di quanto si possa pensare, la complessità sempre maggiore della società ha creato situazioni limite, in cui paradossalmente la vittima diviene la parte dominante del discorso criminologico. Non solo, ma l’autore del reato cessa di esistere… Pendiamo, per esempio, uno svaso di prodotti di scarto di una conceria in un torrente. Chi è l’autore dell’eventuale reato? Il CEO dell’azienda? Il dipendente che materialmente ha sversato il prodotto? Il responsabile del reparto? Il titolare della ditta? O, ancora, gli addetti al controllo della sicurezza? Una situazione anomala, certo, ma che non esula dal fatto che si configuri un fatto- reato, vale a dire un’azione vietata dal codice penale. Ma nel codice primario in Italia, vale a dire la Costituzione Italiana, l’articolo 27, comma 1 recita: “La responsabilità penale è personale”, quindi per un reato c’è bisogno di una persona fisica che sia soggetto agente rispetto all’illecito penale. Ecco quindi che, in un’epoca in cui la delega dirompe a macchia d’olio nella società, diventa sempre più difficile se si tratta di cercare un colpevole di un reato.
In una situazione come questa, come può sentirsi la vittima? Ebbene, una delle strade possibili, la più deleteria per la vittima, è il sillogismo, nient’affatto logico, per cui se non si riesce a trovare un possibile autore, il reato smette di esistere. E se non c’è il reato, non c’è vittima… Ecco quindi che dalla criminologia è possibile delineare una sua specifica parte, la vittimologia.
Dott. Enrico Pauletto
Criminologo, Psicologo