Intervista al Prof. Giovanni Maio

Un gruppo di studenti della Scuola di Ippocrate ha posto al Prof. Giovanni Maio alcune domande, la cui risposta ci è caro rendere pubblica e condivisibile attraverso il blog Quaderni di Ippocrate.

 

Docente della Scuola di Ippocrate, è nato in Italia, è professore ordinario d’etica medica all’Università di Freiburg in Germania.

Si è laureato in filosofia e in medicina e ha ricevuto l’abilitazione in etica medica. È direttore dell’Istituto d’etica medica e di storia della medicina e direttore del Centro interdisciplinare d’etica all’Albert-Ludwigs-Universitat Freiburg. 

Ha scritto numerosi saggi su questioni fondamentali dell’etica. La più recente pubblicazione è Medicina e valori umani. Fondamenti per un’etica medica, Minerva Medica 2023.

 

  1. Professore, che cosa L’ha portata ad occuparsi specificatamente di etica medica, quale è stato il quid?

Quando ero giovane, decisi di voler fare il medico perché volevo dedicarmi alle persone che si trovano in una situazione di crisi. Ma quando iniziai a studiare medicina, mi sentii profondamente frustrato perché lo studio della medicina non dava risposte alle domande che a me risultavano, invece, decisive. Mi interessava la persona malata, ma studiando medicina ho appreso solo il sapere delle scienze naturali e nulla del vissuto della persona malata, nulla del senso di aiutare, nulla dell’aspetto umano della medicina. Tutto ciò mi ha portato alla filosofia, che ha placato il mio desiderio di approfondimento. Mi sono poi occupato di etica medica perché vi vedevo l’opportunità di combinare medicina e filosofia. Oggi sono profondamente grato alla società per avermi dato questa opportunità.

 

  1. Se Lei fosse il Ministro della Salute come modificherebbe il Sistema Sanitario Nazionale, come lo concepirebbe?

Abbiamo bisogno di una sanità che metta al centro le sofferenze e le necessità della persona malata e che dia alle professioni sanitarie la possibilità di dare una risposta adeguata a queste sofferenze. Per questo abbiamo bisogno di strutture che diano alle professioni sanitarie il tempo sufficiente per prendersi cura dei loro pazienti. Abbiamo bisogno di strutture che consentano alle professioni sanitarie di aiutare sia tecnicamente che umanamente. L’uno non funziona senza l’altro, perché l’essere umano non è un meccanismo da riparare, ma l’essere umano è un legame tra corpo, anima e spirito e tutte e tre le sfere sono collegate. La medicina senza sensibilità all’anima e allo spirito del paziente non può essere medicina.

  1. Come cambierebbe il percorso di studi della facoltà di medicina?

Lo studio universitario fornisce agli studenti una visione meccanicistica dell’essere umano, perché tende a ridurre la persona all’organismo. Abbiamo bisogno di un’altra concezione di medicina che deve riflettersi, confluire negli studi. Abbiamo bisogno di un collegamento tra le scienze naturali con le scienze umane e sociali. Dobbiamo indubitabilmente insegnare i saperi delle scienze, ma dobbiamo pure insegnare la necessità di un atteggiamento di profondo rispetto per l’inconfondibilità di ogni persona. Dobbiamo sensibilizzare sulle implicazioni psicosociali della malattia e dobbiamo insegnare che la medicina deve essere fondamentalmente cauta, attenta e riflessiva. 

 

  1. Come definirebbe l’attuale “epoca” nei riguardi della medicina e della cura della persona in occidente?

Stiamo vivendo un periodo in cui la cura e la sollecitudine vengono sempre più eliminate. La nostra epoca suggerisce che nel mondo del progresso tecnologico non ci sia più bisogno di cura, come se la cura fosse solo una cosa privata. Ma il prendersi cura dell‘altro è parte integrante non solo del privato, ma anche del professionista.

 

  1. Ritiene che la “attitudine” alla cura nella vita e nelle professioni sanitarie sia ancora una qualità prevalente o più caratteristica del genere femminile? 

Ho sempre rifiutato l’associazione tra cura e il femminile. Non dobbiamo commettere questo errore di portare la cura come specificità del femminile. La cura è parte integrante dell’umano e deve diventare il nuovo paradigma per tutte le persone, un nuovo paradigma della nostra società. Per questo dobbiamo rivalorizzare la cura e la dobbiamo reinserire nel pensiero e nella prassi delle professioni sanitarie. 

 

  1. Lei ha avuto l’onore di contattare la fragilità dell’essere umano, ma anche la sua grandezza?

Più rifletto sulla medicina e sull’essere umano, più mi rendo conto che l’essere umano è fondamentalmente un essere fragile, che non può fiorire e prosperare se non ci sono altre persone che vogliono fargli del bene. Diventiamo noi stessi solo attraverso gli altri che ci rivolgono la parola e ci confermano il nostro essere così come siamo. È dunque la nostra fragilità che ci dà la possibilità di sviluppo, perché senza fragilità ci troveremmo chiusi in noi stessi. 

 

  1. Come affrontare l’accompagnamento al ”fine vita“, alla morte, laddove si presentino quesiti circa il prolungamento della vita a tutti i costi, oppure la cessazione delle cure, il rifiuto delle cure, fino al come rispondere ad una richiesta di eutanasia? 

Questi temi sono complicatissimi. A mio parere la medicina ha una missione specifica, e questa missione non può essere né la morte, né il prolungamento della vita a tutti i costi. La missione è quella di rimanere accanto al malato, di aiutarlo a superare le crisi della vita. Se tutte le possibilità di guarigione sono esaurite, la medicina deve imparare ad accettare i limiti del possibile. Quello che manca alla medicina è l’atteggiamento di umiltà. Solo una persona umile è capace di decentrarsi e di rivolgersi all’altro per comprendere lo stato d’animo dell’altro. L’umiltà stessa può darci le risposte a queste domande, ma purtroppo abbiamo dimenticato di essere umili. Dobbiamo impararlo di nuovo.

 

  1. Ritiene che le professioni sanitarie abbiamo a che fare con la vocazione

Sì, certo che sì. Lo vedo ogni giorno in aula, quando osservo i giovani studenti di medicina. Vedo nei loro occhi che desiderano e vogliono fare qualcosa di buono per il mondo, hanno quasi tutti un atteggiamento prosociale, e questo è un grande tesoro che hanno dentro di sé. Ma purtroppo, già nello studio, nessuno dice loro che è proprio questo che conta; proprio questo atteggiamento prosociale viene invece trasmesso come qualcosa di sacrificabile e irrilevante.

Questa è la tragedia del nostro tempo: non incoraggiamo i giovani in tutto il positivo che hanno dentro di sé, ma togliamo loro la considerazione umana e li trasformiamo in ingegneri dell’essere umano. Questa mancanza formativa rappresenta e genera un grosso errore nel sistema della formazione e della prassi sanitaria.

 

  1. Con la pandemia del Covid 19 è stato dato grande impulso allo sviluppo della telemedicina, denominata anche e-health (sanità elettronica), che è in progetto di essere intensificata nel prossimo futuro. Sarà in grado di segnare un reale progresso, di garantire e offrire maggiore efficacia e qualità delle cure? 

Questa domanda tocca due aree tematiche: la telemedicina e l’intelligenza artificiale. La telemedicina può davvero essere d’aiuto, ma non dobbiamo commettere l’errore di credere che nell’era della telemedicina il contatto diretto con la persona malata diventerà superfluo. Al contrario, oggi è diventato ancora più importante ricordare che l’essere umano è più di ciò che possiamo raccogliere come dati da lui. I dati qualche volta ci possono dire cosa ha il paziente, ma solo dai dati non possiamo sapere chi è il paziente. E senza sapere chi è la persona malata, non possiamo sapere cosa sia meglio per questa persona individuale. Quindi, oltre ai dati, abbiamo bisogno del contatto diretto, abbiamo bisogno dell’ascolto, abbiamo bisogno del colloquio, abbiamo bisogno del tocco. 

Per quanto riguarda l’intelligenza artificiale, c’è il rischio che venga lasciato all’algoritmo di “decidere“. C’è una tendenza di affidarsi troppo ai risultati fatti dalla macchina e di credere sempre di meno al proprio giudizio come professionista. Perciò è importantissimo evitare di credere ciecamente ai computer. Proprio oggi dobbiamo credere molto di più nel giudizio dei professionisti, perché solo questo può dare un buon consiglio alla persona malata. Il computer sa solo calcolare, ma della vita e dei problemi di vita il computer non ha nessuna idea. 

 

  1. La progressiva coartazione dell’affettività nella prassi di cura ha deprivato l’azione di cura di un elemento essenziale e vitale. Si parla di ‘normopatia degli operatori di cura, che porta con sé la incapacità di atti di empatia. Cosa ne pensa? 

Il problema fondamentale in questo caso sono le condizioni di lavoro. Abbiamo perso di vista che il lavoro essenziale delle professioni di salute non è solo il saper fare ma è soprattutto il lavoro di relazione. Ma più si ignora il lavoro relazionale, più si impone uno stress costante sulle professioni sanitarie. La ragione della normopatia è lo stress delle professioni sanitarie e la sensazione di non poter più soddisfare le proprie e altrui esigenze. Dobbiamo restituire alle professioni sanitarie il tempo, il tempo per la cura, e se lo facciamo, non è inefficienza, ma è un buon investimento per una medicina umana. Un investimento di questo tipo vale la pena compierlo per due motivi: aiuta il paziente a sentirsi meno perso e abbandonato e aiuta le professioni sanitarie a ritrovare la loro attività come fonte di significato. Dove ciò che dà senso è di nuovo presente, ritorna anche la capacità di empatia. Le professioni sanitarie, a mio avviso, sono le vittime di una politica orientata all’efficienza, ed è tempo che la medicina non sia più considerata un’impresa economica, ma una pratica relazionale e sociale, una pratica di cura.

 

a cura di

Cristina Veroni

Counselor filosofico

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